Come Sybil Vane ha ucciso Dorian Gray

Crediti foto: DeviantArt: Moon-May Cry


«E così, ho ucciso Sybil Vane».

Con queste parole Dorian Gray reagisce alla notizia fornitagli da Harry Wotton. L’amata per poche notti, l’attrice che ha scelto di non essere più un’attrice, suicida per il rifiuto del protagonista, sceglie la morte e consegna, in un macabro scambio – forse non del tutto involontario – la stessa sorte a Dorian.

La marcia funebre di Dorian inizia nel momento dell’idealizzazione, processo in cui egli cade influenzato dalle parole dell’amico, cinico esteta, Henry Wotton, o attraverso naturale inclinazione.

Passeggiando una sera per le vie dell’East End, Dorian finisce in un sudicio teatro in cui assiste una rappresentazione del Romeo e Giulietta di Shakespeare. Qui resta incantato da una giovanissima attrice che egli descriverà all’amico come «un viso simile a un fiore, una piccola testa greca, fasciata di capelli neri e lisci, occhi appassionati, veri abissi violetti, labbra come petali di rosa. La più bella cosa che abbia mai visto»[1]. Vi è dunque, fin dall’entusiasta principio, una spersonalizzazione: Sybil Vane è, per Dorian, anzitutto un “qualcosa”, non una persona. Così, le voci che egli spiega d’amare più delle altre, quelle dell’amico Harry e quella di Sybil, recano in loro una potenza diversa: quella dell’amicizia reale e della frequentazione, nel caso di Henry Wotton; quella dell’immaginazione e della rappresentazione teatrale in Sybil. Uno è l’amico reale, l’altra è una maschera che vive della rielaborazione dello spettatore.

Per diverse sere, Dorian assiste ad altre rappresentazioni, ammirando Sybil nelle vesti dei personaggi del teatro. Ma quando, una sera, la rivive nei panni di Giulietta, egli vede il simulacro del ricordo andare in frantumi. Legato a quella irripetibile “prima volta”, il giovane vedere calare il sipario dell’immaginazione che lascia il posto alla cruda realtà. Sybil è un essere umano, fallibile ma, soprattutto, mutabile.

Così egli cede al cinismo di cui Wilde ci dà un assaggio nell’accusa di Dorian a Sybil: «[…] ieri sera era una grande artista. Oggi non è che un’attrice di terz’ordine».

La manifestazione della realtà è tutta nelle parole di Sybil a Dorian: «Mi hai insegnato quello che la realtà era veramente. Questa sera, per la prima volta in vita mia, ho guardato attraverso la vacuità, l’inganno, la sciocchezza della vuota commedia che avevo sempre recitato». Quella commedia che, spiega l’adolescente, non le ha mai dato le parole che sentiva sue, né quelle che avrebbe voluto dire.

È, per entrambi, la caduta del teatro: Sybil si scopre alla vita – una vita che ama, nel suo potenziale, di fronte a un uomo che l’ha corteggiata – mentre si riversa, per Dorian, in un mare di delusione per quell’amore infranto, solo idealizzato, da egli stesso definito più tardi «irreale ed egoista».

Dorian ripudia Sybil, salvo poi pentirsene l’indomani, nella speranza di poter accomodare le cose dando riprova di avere un cuore. Ma è troppo tardi: la ragazza s’è tolta la vita dopo il rifiuto ed egli può solo intonare la sua ammissione di colpa, ricercando però ancora una volta la propria salvezza, in un ultimo grido di rabbia: «Non aveva il diritto di uccidersi. È stato un gesto egoista».

La morte di Sybil Vane dà avvio alla marcia funebre di Dorian Gray, il quale non saprà più guardare alla vita con quello spirito positivo, se non quando sarà, ancora una volta, troppo tardi. Egli assiste al mutamento del suo ritratto come alla decomposizione di un cadavere. È già morto ma non lo sa.

Quel primo tumulto d’amore e d’odio in Dorian è la sperimentazione del Weltschmerz, termine coniato dall’autore Jean Paul in Selina (1872) per indicare il dolore che segue la disillusione, la comprensione del distacco tra immaginazione e realtà, tra ideale e reale. Dorian impatta in quello che ai suoi occhi è un reale imperdonabile e irrimediabile, che disintegra l’immaginario privato che s’era formato in lui, figlio a sua volta di un immaginario collettivo che deve aver impregnato la società degli artisti e dei dandy frequentato da Oscar Wilde.

È il trionfo del decadentismo sul romanticismo; di quel decadentismo caratterizzato da una «nuova poetica come ricerca della musica»[1], tragica nel caso di Dorian: si pensi all’ascolto del prologo del Tannhäuser, in cui Dorian rivedere una «trasfigurazione anticipata della tragedia della sua anima».

È la rivelazione del decadentismo di Wilde nella visione di Elio Gioanola: «[…] la sua mira è l’autenticità, la rivelazione, al di là di tutte le sovrastrutture culturali, moralistiche, intellettualistiche, mitologiche, tutte più o meno ipocritamente consolatorie, del volto vero dell’uomo»[2].


[1] Questa e le altre citazioni dal romanzo sono tratte dalla traduzione di Raffaele Calzini, edizione Mondadori

[2] Walter Binni, Poetica del decadentismo (1936)

[3] Elio Gioanola, Fondamenti ideologici del decadentismo (1972)

 

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