Karamazov e Finzi-Contini. L’iperrealismo di Dostoevskij e il “diabolus ex machina” di Bassani

 

Dominique Sanda nel film Il giardino dei Finzi-Contini di Vittorio De Sica (1970)

«L’irreale è più potente del reale. Perché la realtà non arriva mai al grado di perfezione cui può spingersi l’immaginazione». Anche credendo all’arguzia contorta di Chuck Palahniuk (Soffocare, 2001), è probabile che una civiltà che abita un mondo irreale costituito da frammenti a loro volta artificiosamente rimaneggiati (immagini camuffate, pensieri strappati, citazioni spezzate e decontestualizzate) arda di passione per un reale che possa riconsegnarle una prova inossidabile di un mondo indipendente dalla sua copertina social, capace di sopravvivere alla rimasticazione del pensiero: «Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente» è il pensiero di Leonard Shelby che conclude Memento di Cristopher Nolan, «devo convincermi che, anche se chiudo gli occhi, il mondo continua a esserci».

Il fascino della “storia vera” è persistente, come se le nostre vite, da sole, non ci bastassero, non fino in fondo. Si pensi alla compulsione con cui i media sviscerano il genere prediletto e intramontabile del XXI secolo: il true crime, a riprova che pur volendo fondare le nostre esistenze sul bene, continuiamo a ricercare il male in altre forme, e non vi è poi molta differenza tra un reportage di crudeltà come A sangue freddo di Truman Capote, le finzioni mascherate da realtà e quelle verità miscelate alla nostra Storia, legate e rilegate da essa e bastonate come l’autofiction statunitense e i grandi o meno grandi romanzi storici.

Scrivere un racconto e presentare la vicenda come ritratto della realtà è l’escamotage per eccellenza, la manovra, il trucco – onesto o disonesto – per incentivare il patto narrativo. Romanzare una storia vera affievolisce l’annoso problema dell’intrattenimento, «il mani avanti di una penna che tira indietro», la noia della realtà per citare lo scrittore Marco Archetti, rifocillando una realtà dotata di poca autonomia che, per la sua imperfezione, ci spinge a ricercare storie false, specie se ben raccontate, incluse quelle che indossano i vestiti della Verità.

Alessandro Manzoni e Umberto Eco hanno scelto la strada del manoscritto ritrovato, creando falsi d’autore come proemio di romanzi d’autore. Forse nell’idea di un testo autentico realmente esistente i nostri hanno ritrovato la loro parte di vita romanzata – o il loro ruolo nel romanzo.

Vi sono poi i falsi cronisti che non hanno perso tempo a inventare un manoscritto per inventare una storia: Dostoevskij e Giorgio Bassani si sono proposti come alter ego, in carne e ossa o in veste di proiezione narrativa, nel creare due storie che sono capolavori dei loro secoli: I fratelli Karamazov e Il giardino dei Finzi-Contini, due romanzi che si prefiggono di raccontare eventi realmente accaduti di cui gli autori-cronisti sono stati testimoni diretti o indiretti ed entrambi, per farlo, scelgono di elargire dettagli che non hanno alcuno scopo se non quello di rendere credibili e palpitanti dei mondi che, al pari di quelli fuori dai libri, nascondono la sostanza dei destini in un mare di vuoti imperfetti. Così sappiamo, del primo incontro tra Ivan Karamazov e Smerdjakov, che su «un vecchio divano di pelle e mogano» era stato preparato «un letto con dei cuscini bianchi abbastanza puliti. Sul letto sedeva Smerdjakov, che indossava la stessa vestaglia dell’altra volta. Il tavolo era stato spostato davanti al divano e così nella stanza rimaneva pochissimo spazio. Sul tavolo giaceva un grosso libro dalla copertina gialla», ma anche, dopo, che «Smerdjakov aveva già preso il suo tè e il samovar era spento» e che «aveva un calamaio con l’inchiostro e un piccolo candeliere in ghisa, con una candela stearica». Di Micòl Finzi-Contini sappiamo che è «collezionista di inutili bibelots di vetro».

La realtà da cui Bassani trae ispirazione per tessere la sua rete romanzata è quella di Silvio Magrini, presidente della Comunità Ebraica di Ferrara, accademico e autore di memorie sulla città emiliana; memorie che si interrompono bruscamente nel 1943, anno in cui l’autore viene internato nel campo di Fossoli; nel ’44 seguiranno la deportazione ad Auschwitz e la morte. Silvio Magrini diviene, nel romanzo, Ermanno Finzi-Contini. A tal proposito, Andrea Pesaro, nipote di Magrini e a sua volta presidente della Comunità Ebraica di Ferrara, ha raccontato gli inevitabili diverbi tra Bassani e suo padre (figlio di Silvio Magrini) causati dalla facilità con cui, all’epoca, la sua famiglia era identificabile con la sua controparte letteraria già a partire dai nomi: Uberto Magrini, ad esempio, zio di Andrea Pesaro, diviene nel romanzo Alberto. Una somiglianza estetico-formale che potrebbe apparire per nulla necessaria, se non a rimarcare nella penna e nelle intenzioni dell’autore la verosimiglianza del racconto romanzato di una famiglia decimata dalla storia. L’altro calamaio da cui Bassani attinge il suo inchiostro è il legame con l’amica e musa Teresa Foscari Foscolo, alla quale l’autore regalò i suoi quaderni manoscritti e che, secondo il nipote della donna Ferigo Foscari, è stata la fonte d’ispirazione per il controverso ma inevitabilmente amabile personaggio di Micòl Finzi-Contini.

I Karamazov sono l’occasione per Dostoevskij – all’interno di un progetto che doveva essere più ampio, rimasto poi incompiuto alla morte dell’autore – per tracciare i profili dei tre pilastri dell’esistenza: la vita contemplativa nella fede di Alëša, la vita activa nella lussuria di Dmitrij e una sorta di modus in rebus della filosofia ricercata da Ivan, non a caso il più sofferente dei tre, incapace tanto di andarsene quanto di restare, la notte del delitto annunciato di suo padre: «[…] saliva sul treno e partiva per Mosca. “Alle spalle il passato, ho chiuso con il vecchio mondo per sempre, che non me ne giunga più alcuna notizia, alcuna eco; verso un nuovo mondo, verso luoghi nuovi, senza più guardare indietro”. Ma invece che dall’entusiasmo, la sua anima fu invasa all’improvviso dalle tenebre e il suo cuore si riempì di una tristezza quale non aveva mai provato in vita sua»; incapace di uccidere benché lo desideri: «[…] forse anch’io sono colpevole, forse avevo davvero un tale desiderio che… mio padre morisse, ma ti giuro che non sono tanto colpevole quanto credi tu, e, forse, non ti ho istigato per nulla. No, no, non ti ho istigato!»; incapace, insomma, di scegliersi un destino. Ivan Karamazov è in perenne attesa, inconsciamente consapevole di ciò che accade la notte del delitto del padre almeno quanto il suo sconvolgimento appare sincero durante la confessione di Smerdjakov, a metà strada della percezione, incapace di cogliere l’identità tra ciò che è un romanzo nella sua testa e la realtà nella testa del suo fratellastro. Allo stesso modo, l’alter ego di Giorgio Bassani resta anch’egli prigioniero di un’attesa logorante che oscilla tra la consapevolezza che Micòl Finzi-Contini non abbia mai neppure considerato l’ipotesi di sposarlo e l’illusione di un amore con lei portato allo stremo delle speranze e dell’autoumiliazione.

Ma se nella innominata cittadina russa vi è ancora la possibilità per gli uomini e le donne del romanzo di autodeterminarsi – ma fino a che punto? Forse fin dove può un Karamazov: «[…] io sono un Karamazov» ricorda Dmitrij al fratello Alëša, «perché quando spicco il volo verso l’abisso, a capofitto, con la testa in giù e i piedi in aria, sono persino soddisfatto di cadere proprio in una posizione così umiliante e ci vedo sempre qualcosa di bello» – nei Finzi-Contini ci pensa la Storia a concludere le vicende, con la sua ignobile fatalità già presentita dai personaggi e aleggiante sui fatti: «Il relatore, quello d’inglese, appoggiato anche da altri, aveva controbattuto con molta energia che la scuola era la scuola, che intelligenza e preparazione (bontà sua!) non avevano niente da spartire coi gruppi sanguigni, eccetera eccetera. Quando però era arrivato il momento di tirare le somme, ovvio, scontato trionfo del nazista. E a lei non era rimasta altra soddisfazione, a parte le scuse che più tardi, rincorrendola giù per le scale di Ca’ Foscari, il professore d’inglese le aveva fatto (poveretto: gli tremava il mento, aveva le lacrime agli occhi…), a lei non era rimasta altra soddisfazione all’infuori di quella d’accogliere il verdetto col più impeccabile dei saluti romani»; anticipazione di quello squarcio storico che chiuderà la vicenda, strappandola allo scrittoio di Bassani per riconsegnarla al mare magnum dei manuali di Storia e all’hitlerismo.

Per sciogliere il nodo delle loro trame iperrealistiche, i due autori scelgono strade diverse. Dostoevskij affida il ruolo di assassino e martire all’outsider Smerdjakov, personaggio dormiente del romanzo e figura-simbolo che arricchisce di un oscuro significato il titolo, in quanto quarto fratello Karamazov disprezzato dai suoi consanguinei: «Prima pensavo che fossi uno stupido. Adesso invece parli sul serio!» gli grida Ivan, e Smerdjakov ribatte: «Era il vostro orgoglio a farvi pensare che io fossi stupido».

Anche Bassani, per risolvere i nodi di un’amicizia e di un amore crudele sceglie il male, ma da un’altra prospettiva: la svolta narrativa del cancro di Alberto Finzi-Contini è, storicamente, poca cosa se confrontata al diabolus ex machina del romanzo: la deportazione della famiglia nel campo di concentramento di Auschwitz. L’evento così inatteso per gli ebrei e annunciato da Bassani nella prefazione – «Rivedevo i grandi prati sparsi di alberi, le lapidi e i cippi raccolti più fittamente lungo i muri di cinta e di divisione, e, come se l’avessi addirittura davanti agli occhi, la tomba monumentale dei Finzi-Contini […] deportati tutti in Germania nell’autunno del ’43, chissà se hanno trovato una sepoltura qualsiasi» – e prima ancora dalla storia della nostra coscienza, irrompe nella struttura capitolare da romanzo ottocentesco lasciando il senso di un brusco e impreciso troncamento che rende l’idea del peso umano dell’Olocausto e ci ricorda che certe storie si leggono al rovescio, dalla fine, come il Diario di Anna Frank secondo il Philip Roth di Operazione Shylock.

È proprio nel finale che Bassani sembra voler confermare la teoria espressa da Pirandello in Uno nessuno centomila: «La realtà d’oggi è destinata a scoprircisi illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita». 

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